Cocciniglia, germogli di vite carbonizzati, polvere di lapislazzuli e fenolo, nigrum optimum, solfuro di mercurio, china, olio di lillà e olio di lavanda. E ancora, un forno costruito a mano, una brocca bianca passata di mano in mano per trecento anni, un’antica mappa dell’Europa appesa alla parete e una vecchia tela scrostata stesa sul tavolo da lavoro. Gli occhi attraversati da un lampo febbrile di soddisfazione, un sorriso nervoso increspa il volto imperlato di sudore: l’alchimista comprende di aver finalmente scoperto la formula perfetta, quella che gli permetterà di dare concretezza alla sua ossessione; è giunto il momento di cogliere il frutto di lunghe e segrete ricerche, faticosamente condotte danzando sul sottile crinale che separa il genio dalla follia. Henricus Antonius Han Van Meegeren da Deventer si appresta a far rinascere il grande Jan Vermeer da Delft: riporterà in vita un gigante dell’arte morto da tre secoli per farne il suo golem personale, se ne servirà per annichilire nel modo più raffinato e umiliante i responsabili del fallimento della sua esistenza.
Van Meegeren, pittore disprezzato dai critici ed ormai esiliato dalle grandi gallerie, con un’unica mossa dimostrerà la sua genialità e farà emergere l’ottusa, sconfinata incompetenza dei cosiddetti esperti d’arte. Tutti i presuntuosi che finora lo hanno deriso e offeso, celebrando in vece sua ciarlatani privi di tecnica e di eleganza, tutti i meschini che hanno negato il suo talento perché incapaci di riconoscere la vera grandezza, saranno presto svergognati di fronte al mondo. Van Meegeren ha scoperto come dipingere un nuovo Vermeer, anzi, il migliore dei Vermeer, non un falso qualsiasi, né una banale copia: guardando anche agli esempi di Caravaggio e Rembrandt, raffigurerà una versione della cena di Cristo a Emmaus che supererà per finezza compositiva e capacità evocativa ogni altra opera seicentesca dedicata allo stesso tema. Firmerà il dipinto con le iniziali di Vermeer e poi, con la mediazione di mercanti ignari o compiacenti, lo sottoporrà al giudizio di Abraham Bredius, il principe dei “conoscitori d’arte” olandesi, il pallone gonfiato che, molto tempo prima, con feroci stroncature ha determinato l’inizio del declino della sua carriera.
Di fronte alla perfezione tecnica e alla straordinaria impaginazione del Cristo a Emmaus, il vecchio Bredius, che da sempre cerca di dimostrare l’esistenza di una fase religiosa, narrativa e italianeggiante della produzione di Vermeer, cadrà nella trappola e, gridando al capolavoro, attribuirà la tela al maestro di Delft. Quando ciò sarà accaduto, Van Meegeren rivelerà di essere l’autore dell’opera, celebrando se stesso e denunciando all’opinione pubblica l’ignoranza e la vacua supponenza di Bredius e dell’intera genia dei critici. Van Meegeren ama e studia il Seicento olandese fin dall’infanzia. Sa di essere in possesso di un’abilità tecnica prodigiosa: i suoi virtuosismi sono riconosciuti perfino dai numerosi detrattori che gli rimproverano arretratezza culturale e mancanza di creatività e che lo accusano di coltivare sterili tendenze estetizzanti. Del resto, quella che Bredius e gli altri critici della sua risma definiscono “creatività ”, per lui non è che sperimentalismo folle, degenerato e narcisistico: la lascia volentieri a pessimi pittori di gran nome come Picasso, Kandinsky o Mondrian.
Per realizzare il suo piano, l’artista ha allestito nella sua villa un laboratorio segreto nel quale esaminare con accuratezza tutte le peculiarità della pittura di Vermeer. Ha realizzato artigianalmente colori e vernici, recuperando scrupolosamente le modalità operative e i materiali tipici dall’autore che intende far rivivere, e si è procurato costose tele e telai risalenti al XVII secolo da utilizzare nei suoi esperimenti. Ha verificato i risultati di infinite combinazioni di leganti e pigmenti allo scopo di ottenere una pittura che invecchiasse rapidamente, mettendo alla prova diversi tipi di cottura in forno che permettessero di essiccare il dipinto in modo artificiale. Ha scoperto come ricreare le screpolature e le crepe che il tempo inevitabilmente produce sulla superficie dei quadri, studiando anche come riprodurre l’accumulo di polvere che si deposita nelle fessurazioni dei campi di colore. È arrivato ad imitare i sommari interventi di restauro che mediocri imbrattatele ottocenteschi hanno disseminato su buona parte delle tele dei protagonisti del Seicento. Infine, per non incorrere in anacronismi nei dettagli della composizione, ha deciso di raffigurare soltanto autentici oggetti d’epoca recuperati presso antiquari di fiducia. Grazie ad anni di lavoro maniacale, nei quali si è immedesimato completamente nella personalità e nello stile del grande maestro, Han Van Meegeren si sente finalmente in grado di realizzare un Vermeer “post mortem”, un capolavoro che lo stesso pittore di Delft avrebbe potuto realizzare se soltanto la sua vita non si fosse spenta così presto.
“Questa gloriosa opera di Vermeer, il grande Vermeer di Delft, è emersa – grazie a Dio! – dall’oscurità nella quale ha languito per molti anni […]. La profondità di sentimenti che sgorga dalla tela non si rintraccia in nessun altro suo lavoro. Ho trovato davvero difficile trattenere le mie emozioni quando questo capolavoro mi è stato mostrato per la prima volta […]. Composizione, espressione, colore – tutto si combina a formare un’unità dell’arte più alta, della bellezza più sublime”.
Così scrive Abraham Bredius nel settembre 1937 nella sua perizia sul Cristo a Emmaus. Il dipinto gli è stato presentato da un mercante il quale sostiene di averlo rinvenuto nella collezione di una famiglia di antica nobiltà che, trovandosi sull’orlo della bancarotta, per ovvie ragioni pretende di mantenere l’anonimato. Spinto dalla certificazione dell’illustre esperto, e ancor più dal suo giudizio entusiasta, per assicurarsi il capolavoro il Boymans Museum di Rotterdam paga l’enorme cifra di 520.000 fiorini, ottenuti mediante sovvenzioni pubbliche e sottoscrizioni private.
L’acquisizione del “Vermeer ritrovato” da parte del museo olandese suscita grande eco in tutta Europa e, quando la tela viene finalmente esposta, un fiume di persone si accalca per ammirarla. Presi dall’entusiasmo o da semplice curiosità , alcuni visitatori si sporgono oltre le transenne erette a protezione del dipinto, attirando l’attenzione delle guardie e della folla: nel momento in cui tutti gli sguardi sono concentrati sugli indisciplinati, uno di essi esclama ad alta voce che il Cristo a Emmaus è senza dubbio un falso. A sostegno della sua affermazione, l’uomo cita anche il fatto che la tela non è stata sottoposta ad alcun test scientifico. Immediatamente, i più colti ed esperti tra i presenti lo accusano di insolenza e ignoranza; qualcuno di essi scuote il capo, quando riconosce nel provocatore il mediocre pittore Han Van Meegeren, artista reazionario che, dopo un promettente esordio, si è ridotto a vivere di ritratti edulcorati prodotti per la borghesia meno illuminata. La sua arroganza e il suo carattere bilioso sono ben noti, così come la sua propensione all’alcol; per giunta, nel mondo dell’arte si sa che egli odia a morte lo stimatissimo, infallibile Bredius e che sarebbe disposto ad affermare qualsiasi cosa pur di contraddirlo.
Incalzato e offeso dagli astanti, anziché ribadire le sue certezze e dimostrare di essere l’autore del dipinto, improvvisamente Van Meegeren si acquieta e, quasi scusandosi per l’avventatezza delle sue precedenti affermazioni, spiega di aver parlato sull’onda di un’impressione emotiva e momentanea; pur mantenendo alcune riserve, dopo un esame più accurato della tela dichiara che, a suo avviso, ci sono discrete possibilità che essa sia autentica.
Probabilmente Van Meegeren comincia a prendere in considerazione i benefici che gli deriverebbero da un rinvio della pubblica umiliazione di Bredius. Il mezzo milione di fiorini pagato dal Boymans Museum per il Cristo a Emmaus costituisce una somma strabiliante e il ritrovamento “casuale” di un paio di altri Vermeer sconosciuti, magari in qualche misteriosa collezione anonima, potrebbe rivoluzionare la sua precaria situazione economica… Soprattutto, gli permetterebbe di coltivare liberamente l’assai dispendiosa passione per le donne, il gioco e lo champagne; una passione che, quanto a intensità , è almeno pari a quella che egli nutre nei confronti della pittura del Seicento.
In un solo istante, il bisogno di denaro si rivela più urgente sia del sogno di gloria, sia del desiderio di vendetta.
Per l’Europa la guerra è finita da poco, ma il prigioniero che trema dentro la cella ha appena cominciato la sua battaglia. Gli manca disperatamente la dose quotidiana di morfina, ne ha un assoluto bisogno per recuperare almeno un momento di lucidità . Perché nessun uomo dovrebbe essere costretto a prendere la decisione più importante della sua vita tra una crisi d’astinenza e l’altra.
Il dilemma che si pone al prigioniero non sarebbe di facile soluzione nemmeno per una persona che si trovasse nel pieno possesso delle facoltà mentali. Confessare la verità , per rivedere subito la luce, ma rinunciare definitivamente alle ingenti ricchezze accumulate; o tacere, accettare una pena che rischia di essere pesantissima, sperando di poter uscire, prima o poi, dal carcere e di avere così la possibilità di trascorrere la vecchiaia sulle spiagge più belle del mondo, nei casinò più raffinati in compagnia di splendide donneà
Il pubblico ministero sta per trasformare le accuse di collaborazionismo con i nazisti e di attentato al patrimonio artistico nazionale nel capo d’imputazione più grave e infamante in assoluto, quello di alto tradimento. In caso di colpevolezza, il giudice potrebbe perfino condannarlo all’ergastolo.
Con la fronte imperlata di sudore, il 12 luglio 1945 il prigioniero Han Van Meegeren compie la sua scelta. Si dichiara innocente in relazione all’accusa mossa nei suoi confronti: afferma di non aver depauperato in alcun modo il patrimonio artistico olandese e di non aver mai collaborato con il nemico. Sostiene, infatti, di non aver venduto alcun dipinto realizzato da Jan Vermeer al Maresciallo del Terzo Reich Hermann Göring, l’insaziabile, compulsivo collezionista d’arte, l’osceno avvoltoio sempre pronto ad approfittare delle rovine dei collezionisti ebrei e delle ricchezze dei paesi occupati dal suo esercito. A tale proposito, egli non nega di aver venduto a Göring il Cristo e l’adultera firmato I.V.Meer che è stato ritrovato dagli Alleati nel deposito segreto di Unterstein, ma spiega che quel quadro è un falso, per giunta eseguito in modo frettoloso e piuttosto sciatto. Precisa di poter garantire con assoluta certezza la non autenticità dell’opera, indipendentemente dai giudizi dei critici, giacché egli stesso ne è l’autore.
Sul volto di Van Meegeren la tensione cede progressivamente il posto ad uno sguardo compiaciuto e ad un ghigno rabbioso: la preoccupazione per la rovina economica, ormai inevitabile, si fa via via trascurabile rispetto al senso di liberazione e, soprattutto, alla soddisfazione che prova mentre osserva l’incredulità degli interlocutori; già pregusta l’eco che la sua confessione susciterà in tutto il paese. Il prigioniero formula una dichiarazione che lascia attoniti i poliziotti incaricati di raccogliere la sua deposizione: sostiene di aver realizzato, oltre al Cristo e l’adultera, altri dipinti attribuiti a Vermeer dai più illustri storici dell’arte ed esperti europei, pagati milioni di fiorini da importanti musei o acquistati per cifre astronomiche dai più facoltosi collezionisti di tutto il mondo. Dopo alcuni istanti di silenzio, dice di essere l’autore del Cristo a Emmaus esposto presso il Boymans Museum, il capolavoro del maestro di Delft riscoperto da alcuni anni e universalmente ammirato. Solo un’ombra vela il compiacimento di Van Meegeren: è la consapevolezza che Abraham Bredius non dovrà fare pubblica ammenda del suo errore e non sarà costretto a rendere omaggio al suo talento. Il celebre critico lo ha beffato ammalandosi gravemente prima di poter essere umiliato; è certo che morirà prima che il processo abbia inizio.
Per accertare la veridicità delle parole di Van Meegeren, i magistrati decidono di costringerlo a dipingere un nuovo falso vermeeriano sotto il controllo assiduo delle forze dell’ordine; nel contempo, nominano una commissione di esperti incaricata di confrontare il lavoro che sarà realizzato dal prigioniero con la tela del Boymans Museum, con quella trovata nella collezione insanguinata di Göring e con gli altri quattro Vermeer che egli sostiene di aver falsificato. Con grande soddisfazione di Van Meegeren, la composizione della commissione provoca enormi imbarazzi tra i critici e gli accademici: quasi nessuno dei più celebri esperti d’arte olandesi avrebbe titolo per farne parte, in quanto tutti i critici di fama, in passato, hanno rilasciato perizie o formulato giudizi nei quali attribuivano a Vermeer almeno una delle opere poste sub judice.
Come Van Meegeren aveva previsto, il caso esplode sulla stampa nazionale e attira anche l’attenzione dei principali giornali europei. Se davvero avesse avuto il coraggio di rifilare un falso al vice di Hitler, l’imputato, accusato di alto tradimento, agli occhi del popolo diverrebbe in una sorta di eroe della patria; se davvero fosse riuscito a ingannare i più illustri esperti, il mediocre artista conquisterebbe improvvisamente la fama dovuta a un genio del pennello. Grazie anche alla pressione dei media, a disposizione di Van Meegeren vengono messi tutti i materiali da lui richiesti; soprattutto, i giudici decidono di concedergli alcune dosi di morfina, senza le quali, ormai dipendente dalla droga, egli non sarebbe in grado di raggiungere un’adeguata concentrazione.
Van Meegeren non ha bisogno di riflettere a lungo circa il soggetto dell’opera che sancirà la sua rivincita nei confronti di accademici e presunti eruditi: con sottile ironia, decide di raffigurare il giovane Gesù a colloquio con i boriosi dottori del tempio di Gerusalemme. Nonostante le difficili condizioni psicologiche, la tossicodipendenza e la limitatezza del tempo concessogli, egli porta a termine un dipinto che risulta ampiamente compatibile con i falsi che sostiene di aver realizzato. Inoltre, le analisi chimiche condotte su tutti i quadri in questione evidenziano la costante presenza di formaldeide e fenolo, sostanze ignote prima dell’Ottocento che Van Meegeren, nel corso della sua confessione, ha dichiarato di aver usato per accelerare l’asciugatura della pittura.
Alcuni membri della commissione, forse restii a riconoscere gli errori commessi in passato da loro stessi o dai loro più celebri colleghi, si mostrano scettici nei confronti dei risultati degli esami scientifici e continuano ad avanzare forti riserve sui due quadri più importanti tra quelli messi sotto esame: il celebre Cristo a Emmaus del Boymans Museum e una straordinaria Ultima Cena acquistata dall’armatore Daniel George Van Beuningen, capolavori ritenuti troppo perfetti per non essere autentici. Lo stesso Van Beuningen, intenzionato a non svalutare la sua collezione, incarica alcuni critici affinché dimostrino l’originalità dell’opera in suo possesso, pagata quasi mezzo milione di fiorini. Ne nasce un’aspra controversia tra gruppi di esperti alla quale è Van Meegeren a porre fine, ricorrendo a mezzi tanto prosaici quanto efficaci: prima egli esibisce un pezzo del telaio del Cristo a Emmaus che aveva asportato ai tempi della realizzazione del dipinto (e, ovviamente, il pezzo risulta perfettamente coincidente con una lacuna presente nel telaio del dipinto); poi mostra la ricevuta di acquisto di una scena di caccia di Hondius, un artista minore del Seicento, che è identica a quella che i raggi x scoprono, parzialmente abrasa, sotto lo strato di pittura dell’Ultima Cena di proprietà di Van Beuningen. Per meglio ingannare gli esperti, infatti, Van Meegeren usava realizzare i suoi Vermeer sopra autentici supporti d’epoca, dai quali, per non rovinare l’orditura delle tele, rimuoveva solo sommariamente le pitture originali.
Il 29 ottobre 1947, in un clima di attesa spasmodica, si apre il processo contro Van Meegeren. L’Olanda intera si è innamorata della sua storia e spera nell’assoluzione. Secondo i giornali, il pittore gode di una popolarità straordinaria e i suoi dipinti, riscoperti nei depositi dei pochi galleristi di second’ordine che, in passato, si erano degnati di esporli, vanno letteralmente a ruba. Poiché le prove raccolte durante l’istruttoria non lasciano spazio a dubbi, i magistrati promulgano la sentenza soltanto pochi giorni dopo la prima udienza. L’imputato è giudicato colpevole di falso in quanto ha apposto sopra alcune sue opere le iniziali di Jan Vermeer; per tale reato, in sede civile è costretto alla restituzione del denaro guadagnato in modo illecito; in sede penale, è condannato al minimo della detenzione prevista dal codice (un solo anno di carcere). La condanna risulta lieve perché Van Meegeren non ha mai dichiarato esplicitamente che i dipinti in questione fossero dei Vermeer, ma si è limitato a favorire e non contraddire le erronee attribuzioni effettuate dagli esperti interpellati da mercanti e acquirenti. Ovviamente, egli è completamente scagionato dall’accusa più grave, quella di alto tradimento.
Han Van Meegeren ha appena il tempo di assaporare il trionfo, di godersi la pubblica rivalutazione del suo talento e la rabbiosa disfatta dei critici. Duramente provato dalla tensione degli ultimi anni e da una vita segnata da ogni genere di eccessi, si spegne nella notte tra il 29 e il 30 dicembre 1947. Ancora giovane, è tradito dal cuore, proprio come, quasi tre secoli prima, Jan Vermeer da Delft. Con lui muore uno dei più grandi falsari; almeno, il più abile tra quelli scoperti.
tratto da www.lelefante.it
trimestrale iscritto al Registro Stampa del Tribunale di Pavia, n. 632/05, autorizzazione del 13.12.2005
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