La ricerca sulla risposta a prodotti inerti suggeriscono l’importanza di una relazione terapeutica che tenga conto delle aspettative che emergono dal paziente facendo leva sulle valenze cognitive dell’atto clinico.
Come medico pneumologo, che si è molto occupato della terapia dei tumori polmonari, mi sono frequentemente imbattuto su pubblicazioni scientifiche che, per dimostrare come un chemioterapico, o un qualsiasi altro farmaco antitumorale, potesse essere attivo contro il tumore polmonare, lo comparavano ad un prodotto inerte con effetto “placebo”. L’esempio più spettacolare di una comparazione lo si è ottenuto mettendo a confronto l’attività antidolorifica della morfina con quella di un placebo, cioè una sostanza senza alcuna attività farmacologia. In questo caso si sono riscontrate percentuali di risposta con scomparsa del dolore del 60% nei pazienti che avevano assunto il placebo contro l’80% nel gruppo di pazienti a cui era stata somministrata morfina. Mi ha sempre meravigliato come tale importante risposta al placebo, accettata peraltro come norma da tutti i medici, non sia mai stata organicamente affrontata e spiegata agli studenti in nessun esame dei ben trentasei di tutto il corso di medicina. In realtà l’esplosione, negli ultimi anni, di ricerche scientifiche in campo medico, psicologico, biologico, fisico, antropologico, filosofico ed evoluzionistico permette di ricostruire l’interpretazione scientifica dell’effetto placebo in modo completamente nuovo e assai accurato, costituendo – per ogni individuo – questo “effetto” un patrimonio biologico, frutto di una complessa storia evoluzionistica collettiva, ma anche espressione di un’individualità biologica correlata ad una summa di esperienze cognitive. Intendendo per cognitivo ogni stimolo neurosensoriale, che possa modificare la ricezione cerebrale. Tale summa di esperienze è ciò che forma, in ultima analisi, la “Mente” di ogni individuo e secondo G.M. Edelman, neuroscienziato già premio Nobel della medicina per i suoi studi sul sistema immunitario (1972), è affascinante oggi poter mettere in relazione tutti i risultati ottenuti nel campo della ricerca fra comportamento e processi mentali. È sorprendente, afferma Edelman, rendersi conto di quale connessioni si prolettino ad ognuno di questi livelli ad un altro, da una reazione di paura indotta da un grido di avvertimento ad un processo biochimico che condiziona il comportamento futuro. Da un’infezione virale come stimolo del sistema immunitario si arriva ad una variazione dello sviluppo del cervello con conseguente diversa maturazione di quest’ultimo. E ancora se ad un topo di laboratorio viene iniettata una piccola dose di apomorfina in un ambiente che gli è familiare, si mette a salivare, gli si rizza il pelo e si appallottola con aria sofferente per un breve periodo. Qualche mese dopo, se allo stesso topo posto nello stesso ambiente, si inietta una piccola dose di soluzione fisiologica, egli ripropone lo stesso tipo di comportamento di sofferenza. Questo si definisce, al contrario dell’effetto placebo, effetto nocebo collegato all’apprendimento (Patrick Wall). Se l’effetto placebo è dunque la realizzazione di una aspettativa, le aspettative si apprendono a livello individuale; se poi più persone condividono le stesse aspettative, si genera una cultura. La capacità pertanto di rispondere al placebo è legata all’apprendimento individuale nel mondo animale nell’uomo invece anche al tipo di cultura personale e a quello dell’etnia a cui appartiene. Come sostiene Patrick Wall, quando nel bambino scompare la fiducia nell’onnipotenza materna egli la sostituisce con le credenze della comunità cui appartiene. Nelle zone africane attraversate dal fiume Zambesi, pertanto, la fiducia viene risposta in un mucchietto di ossa dallo sciamano e negli Stati Uniti nel lettino dell’analista. Di fronte a tali considerazioni, come medico che esercita la professione da oltre trent’anni, mi domando quante volte io abbia rispettato le aspettative biologiche del malato che aveva riposto in me la sua fiducia, ma soprattutto se sia in grado di sfruttare al meglio l’aspettativa terapeutica che il paziente riponeva in me. In teoria, quindi, somministrando un antibiotico ad un immigrato africano, se fossimo affiancati da uno sciamano, otterremmo una risposta sinergica coerente con lo sviluppo antropologico di quel malato. L’antropologo, ad esempio, non si chiede quale sia la medicina “vera”, ma solo quale relazione vi sia tra l’efficacia delle soluzioni offerte e l’interpretazione che ne dà la società in cui vengono applicate. La cura, in generale, non può prescindere dall’aspetto relazionale; per cui se medico e malato sono convinti l’uno dell’altro la terapia funziona. Secondo Good è limitativo attribuire l’effetto placebo a generiche capacità di influenza della psiche sul corpo. Anche il placebo, infatti, deve essere culturalmente consono a chi lo riceve. Non a caso la maggior parte delle medicine tradizionali africane e sudamericane utilizza, a questo scopo, complessi rituali, densi di significati simbolici. In fondo, anche la compressa assume nella cultura medica occidentale il valore di un simbolo, a quella della vittoria dell’intelligenza umana sui mali provocati. Come pneumologo, che per anni si è occupato di malattie funo-correlate, lasciatemi concludere con un suggerimento. |
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