Avrei voluto scrivere un saggio sul lavoro di Giorgio, non solo per una incondizionata stima per l’artista, ma anche perché era una persona estremamente buona, e meritava che quel lavoro cui aveva dedicato con costanza tanto tempo e tante energie, fosse riconosciuto nel suo valore e svelato nei suoi meccanismi. Avrei voluto farlo, perché in quelle caste sculture si dispiegava un mormorante canto d’amore: amore per il mestiere, amore per la materia, amore per la figura femminile, che trattava con un rispetto affettuoso, carezzevole allo sguardo. Tutto questo meritava uno studio che raccontasse la sua storia umana, oltre che artistica. Mi sarebbe piaciuto farlo o, meglio, avrei voluto che lui potesse leggerlo, che ci fossero altre occasioni di fare qualcosa, di fare il punto sul suo lungo percorso e sulla sua carriera.
Invece Giorgio ha potuto leggere solo un brevissimo appunto, scritto per la cartolina di invito per una mostra personale che avrebbe presentato a Rho, nella galleria di una comune amica, Lucilla Restelli. Quella mostra, per me e Lucilla, era diventata quasi un puntiglio, un leit-motiv che si era protratto per quasi un anno: un anno, anzi forse due, erano stati necessari per superare la ritrosia, la naturale inclinazione di un uomo timido ma infinitamente buono. «Allora, Lucilla, quando fai la mostra di Scainià» era diventata una frase ricorrente. Ma il maestro titubava: prima voleva vedere il posto, poi doveva pensarci un po’ su, e poi ancora un altro tempo di riflessione. È stato così che l’ho conosciuto e che ho imparato ad amare di più il suo lavoro. Non immaginavo certo, però, che quella sarebbe poi stata la sua ultima mostra personale, alla metà di ottobre del 2009, e che di quel progetto che coltivo da qualche tempo, avrebbe potuto vedere soltanto una piccola traccia. Il tarlo di dover fare qualcosa sul suo lavoro, insomma, è rimasto a lungo, con il rammarico di non avere avuto tempo di darvi almeno una prima sistemazione. A dire il vero, il suo nome mi era già noto prima ancora di conoscerlo, dalle pagine del manuale di scultura compilato da Pino di Gennaro: un libro stimolante per uno studente di liceo, in cui tutti i processi della scultura sono illustrati passo per passo seguendo un artista all’opera nel suo studio durante le varie fasi del lavoro. Su quella pagina di Scaini avevo imparato come si facesse un’armatura per la terracotta, con carta di giornale e armatura metallica, in modo tale che questa potesse poi essere sfilata e l’opera modellata svuotata al suo interno. Dei miei scarsi cimenti nella modellazione, credo che questa sia stata una delle esperienza più emozionanti, ai primi anni di liceo; indirettamente l’ho imparato per merito suo. Certo non potevo immaginare, allora, che in realtà quel libro manifestava anche una sotterranea rete di relazioni, che tutti quegli scultori erano anime di una nuova officina milanese e, soprattutto, che erano persone amiche fra loro. Alcune di queste, incontrate negli anni successivi, sono diventate anche miei amici. Fu proprio Giorgio a rivelarmi questo aspetto meno evidente di quel libro, di cui le fotografie erano state fatte per la maggior parte da lui: era andato in tutti gli studi e aveva fotografato tutti gli amici al lavoro. Accanto all’amore per la scultura, infatti, c’era anche una grande passione per la fotografia. Giorgio, infatti, era uno dei pochi scultori che sapesse fotografare le proprie opere con l’abilità di un fotografo di mestiere, con competenza e con attenzione. Ma non fotografa soltanto la scultura: un amico che è stato suo allievo, oggi pittore, mi dice che per loro, suoi alunni di liceo, il ricordo del loro professore era con la macchina fotografica al collo: «tutti», mi dice, «ricordiamo Scaini per la sua macchina fotografica sempre pronta a fissare momenti scolastici, volti, e foto di classe…..». Molte sue allieve, per altro, grazie a questo materiale iconografico sono diventate soggetto di numerosi ritratti, più di tutte, però, le sue donne ricalcavano, da lontano, il portamento e la classe di Graziella, la sua amatissima moglie. Il ricordo di Giorgio, infatti, non può esser separato da quello di lei: credo di non averlo mai incontrato da solo, né a una sua mostra, personale o collettiva, né alle mostre degli altri. Nulla mi toglie l’impressione che Valentino e Valentina, i due innamorati di Peinet, se non fossero imprigionati in una eterna adolescenza, sarebbero invecchiati inseparabili come Giorgio e sua moglie. E nell’amore di Giorgio per il corpo femminile, penso che ci fosse a monte soprattutto l’amore per lei, anche se le sue donne non hanno le sue sembianze o i suoi lineamenti. Quando visitai il suo studio, però, mi rimase l’impressione che moltissime di quelle fanciulle di terracotta avessero la stessa pettinatura a caschetto di Graziella. Non si può, insomma, parlare della scultura di Giorgio senza parlare di lui, senza sforzarsi di darne un ritratto umano, per quanto sommario. Valgono forse, molto semplicemente, le parole del mio amico e suo allievo di liceo: «un maestro mite, dai modi gentili, che amava la cultura del bello», anzi «il più mite e il più modesto». Una modestia, forse, che lo portava a concentrarsi più sulla scultura che sull’autopromozione. Giorgio non si è mai preoccupato, insomma, di costruire il “monumento” alla propria memoria: modellava le sue figure e i suoi ritratti soprattutto perché questo gli dava gioia, e le sue sculture erano oggetti di affezione più che prodotti da vendere. Mi ricordo in particolare il busto di una giovane ragazza in un cotto rosso intenso, che contrastava con un abito bianco dalla scollatura larga: un pezzo raffinatissimo, davvero da destinarsi ad un museo, da cui non si è mai voluto separare. Quando un potenziale acquirente gli chiese quanto costasse, mi raccontò, gli aveva comunicato una cifra stratosferica, con il preciso scopo di dissuaderlo dal comprarla, dal portargliela via: ci era troppo affezionato perché potesse privarsene. Sono, questi, i tratti di un uomo che non amava la fretta, né il chiasso, che sarebbe potuto apparire indifeso di fronte alle aggressioni del mondo moderno, e che faceva un’arte garbata, di sentimenti nobili e trattenuti, che non avrebbe mai potuto (né voluto) aggredire l’osservatore. Anche laddove erano manifesti sentimenti di turbamento e inquietudini tutte moderne, il grido e il dolore erano trattenuti dalla misura grafica di una scultura in cui Giorgio Seveso aveva acutamente rilevato «una plasticità soda e compiuta giocata nei termini d’una sorta di elegante espressionismo percorso, sempre, come da una sottilissima e interiore increspatura d’ironia, di amabile liricità, umorosa e divertita, in cui, tuttavia, i materiali, e segnatamente la terracotta, si mimetizzano volentieri da resina o da polimero, quando non rifanno, quasi ironicamente, il verso al marmo e alla pietra» Si può dire che lavorava con emozione, forse con spirito sognante, di certo con un senso di dolcezza, e che non avrebbe mai potuto fare un lavoro che violentasse la materia con impeto. Soltanto adesso, in effetti, capisco che quella lentezza che aveva un po’ esasperato Lucilla e me, quando si pensava alla mostra rhodense, erano un valore da acquisire, per imparare a non avere fretta: già allora, forse, avrei potuto capire che la calma e la dedizione, la concentrazione sul lavoro, erano un tratto distintivo del suo modo di attraversare il mondo dell’arte contemporanea. Una modalità di approccio, questa, che non solo andava in senso contrario alla tendenza al consumo delle forme espressive, ma che non si preoccupava che il tempo della scultura seguisse lo stesso passo di quanto vi stava intorno. Scaini seguiva la propria rotta seguendo un’estetica senza tempo, indifferente alle mode e alle tendenze, senza preoccuparsi di fare un’arte che fosse senza tempo, da fruire con coordinate proprie, secondo propri canoni impermeabili alle novità più contingenti (e spesso transitorie), delle avanguardie. Tutto questo non era però soltanto una scelta di poetica, ma un vero e proprio modo di vivere che era impermeabile ad un fare frenetico: nel cuore del suo affollatissimo laboratorio, dava amorevole vita alle sue figure. Lo studio di Giorgio Scaini era popolato di donne: figure femminili bellissime, altere, dai colli lunghi ed eleganti e i tratti sottili, sofisticate: in un panorama della scultura dominato da pomone, Scaini proponeva un immaginario stilnovistico, elegante ma etereo, dove l’umanità incede abitualmente a passo di danza. Nel suo affollatissimo e ordinatissimo studio di Milano, creava una scultura in cui il mestiere era un valore, anzi dove contava soprattutto la sapienza della materia e della tecnica portata fino alle punte del virtuosismo. «Giorgio conosce tutti i segreti della terracotta» mi dice Graziella, la moglie amatissima di Scaini, mentre visito lo studio del marito. Sotto le sue mani prendeva tutte le forme, riusciva a simulare i materiali più diversi, a dare l’idea che la terracotta fosse legno, o bronzo, o addirittura una pietra dura lucidata, e a costruire grandi architetture di figura ai limiti della statica. Va da sé che questa predisposizione alla complessità strutturale non era un vuoto virtuosismo, né una banale dimostrazione di abilità tecnica, così come non si è mai preoccupato di raggiungere effetti mimetici: quasi per paradosso, la sua grande abilità ritrattistica e l’abilità a far “stare in piedi” complicate strutture di terracotta era un momento di leggerezza che non si è mai posta il problema di dover competere con il reale, anche quando metteva in atto quel gioco di simulazioni per cui un materiale cercava di confondersi con un altro. Eppure a Scaini non mancava la mano felice, capace di cavare la figura con segno maturo: sempre il suo allievo e mio amico, infatti, mi racconta che «un giorno a lezione, dopo averlo un po’ invogliato, si e’ messo a disegnare una nostra compagna di classe, aveva una mano felice. molto veloce , segno morbido.. grande freschezza». Meriterebbe infatti di essere ricordato che nei lunghi anni in cui ha affiancato l’insegnamento alla pratica artistica, al primo liceo artistico di Milano, a Brera, non ha mai insegnato le cosiddette “discipline plastiche”, ma che aveva preferito (non so se per scelta o per casualità) quello di figura disegnata. Alla domanda degli studenti sul perché lui, scultore di professione, non insegnasse la scultura ma il disegno, rispondeva che tutto sommato praticava la scultura già a casa, quindi insegnare il disegno agli studenti non poteva fargli altro che piacere: almeno era un modo per dedicarsi a un’attività diversa, e questo non lo annoiava. In effetti, accanto a tanta terracotta, nello studio di via Maspero rimane anche una ricchissima produzione grafica che meriterà di essere approfondita, in cui era riuscito a conciliare con un impianto disegnativo figurativo rigoroso con uno dei maggiori portati delle avanguardie: il collage. Anche qui, di nuovo, un gioco di simulazione. l’artificio che sembra natura, insomma, non serviva a far sembrare la scultura più vicina al vero, anzi accentuava la sua peculiarità di opera dell’ingegno, in cui la linea del volto si trasformava in marca grafica, in linea di contorno che faceva da contrappunto “barocco”, da linearismo “liberty” ma senza fioriture ornamentali. Mi piace ricordarlo così, con quell’emozione incerta, quasi tremante, con cui voleva trasmettermi la grande impressione davanti a Bernini, a quell’affondare quasi prodigioso delle mani di Plutone nel fianco di Proserpina: con la mano simulava il gesto, facendo sentire come davvero si percepisse, lì, che quel marmo era diventato carne, dava la percezione dell’epidermide. «Ma chi lo ha detto che il barocco è fuori modaà Il barocco è bellissimo» è un frase che non ricordo più se fu pronunciata, in quell’occasione, da Giorgio o da Graziella; ma in fondo, è la stessa cosa che sia stata detta dall’uno o dall’altra: in entrambi i casi riassumeva il senso di una ricerca e di una estetica. Mi piace ricordarlo in quel pomeriggio di ottobre, con Lucilla, nello studio di via Maspero, circondati da quel senso del bello assoluto, forse sublime. «Se oggi continuo a pensare all’arte, alla pittura, alla scultura, con umiltà e perseveranza senza lasciarmi tentare dalle facili cadute di stile che» mi dice l’amico artista, «è anche grazie al suo esempio». Forse ora che Giorgio non torna più a lavorare nello studio di via Maspero, le sue sculture raggiungono, per metafora, un senso più completo: le donne delle sue sculture avevano una leggerezza tale che sembravano pronte a lievitare, quasi avessero imparato a danzare prima che a camminare, perché solo in punta di piedi, a passo di danza, ci si può trovare a proprio agio in un empireo angelico e melodioso, rarefatto. |
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